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Cancro del retto: il Prof. Alberto Arezzo, luminare della disciplina, tra esperienza e eccellenza clinica

Ci sono interviste che informano, altre che raccontano. E poi ci sono quelle rare occasioni in cui chi legge ha la sensazione di essere accompagnato dentro un luogo di conoscenza, quasi in punta di piedi, mentre un grande maestro della medicina apre il proprio sapere con generosità e chiarezza.


È ciò che accade qui: Roberta Sestito, Manager di Eccellenza Medica, con questa conversazione ha fatto molto più che porre domande, ci ha regalato l’opportunità di entrare simbolicamente in un’aula universitaria, di sederci tra gli studenti, e di ascoltare la voce di uno dei massimi esperti nel trattamento del cancro del retto, il Prof. Alberto Arezzo, Professore Ordinario di Chirurgia Generale per Chiara Fama all’Università di Torino, nonché Presidente Eletto della European Association for Endoscopic Surgery. 


L’intervista diventa così un percorso guidato dentro la complessità di una malattia che sta cambiando volto: dalla diagnosi precoce alle scelte terapeutiche, dalle tecniche endoscopiche più avanzate alla biologia tumorale, fino ai nuovi scenari dell’intelligenza artificiale e dell’organo-preservation. Ma soprattutto, ciò che emerge è la visione del Professore: una medicina che integra scienza e umanità, precisione e ascolto, radicalità oncologica e rispetto profondo della persona.


Quella che segue è dunque una lezione autorevole, accessibile e illuminante.
Un’occasione preziosa che ci permette di seguire il Professore mentre scompone una malattia complessa in concetti comprensibili, senza mai perdere rigore né profondità. Attraverso queste pagine possiamo comprendere come sta evolvendo la gestione del cancro del retto  e come l’esperienza degli specialisti che guidano questo cambiamento stia trasformando una sfida temuta in un percorso sempre più controllabile e personalizzato.


Infografica a cura del Prof. Alberto Arezzo


1. Professore, osservando l’evoluzione degli ultimi decenni, come interpreta l’attuale incidenza del cancro del retto, e quali segnali epidemiologici ritiene più significativi per comprendere la portata reale di questa malattia oggi?


«Il cancro del retto oggi non è più una malattia “rara e lontana”: è una delle grandi neoplasie del nostro tempo, parte integrante del capitolo dei tumori colorettali. Nei Paesi occidentali il colon-retto rappresenta infatti uno dei tumori più frequenti sia negli uomini sia nelle donne, con un peso importante in termini di incidenza e di anni di vita persi.


La buona notizia è che, rispetto a venti o trent’anni fa, vediamo sempre più spesso diagnosi in fase precoce. Questo è il risultato combinato dei programmi di screening con ricerca del sangue occulto e colonscopia, della maggiore sensibilità dei medici di medicina generale e della crescente attenzione delle persone ai segnali che il corpo manda.


Ci sono però almeno tre segnali epidemiologici che considero particolarmente rilevanti oggi:


Uno. L’abbassamento dell’età di esordio – osserviamo un aumento dei casi in pazienti sotto i 50 anni, spesso in assenza di familiarità evidente. Questo ci obbliga a ripensare sia i criteri di invio alla colonscopia sia i messaggi di prevenzione rivolti agli adulti “giovani”, che tendono a sottovalutare sintomi come sangue nelle feci o cambiamenti dell’alvo.


Due. L’incremento delle forme iniziali e superficiali – polipi avanzati e tumori T1–T2 del retto vengono identificati con maggiore frequenza. Dal punto di vista clinico, questo è decisivo, perché apre la porta a strategie terapeutiche più conservative, anche di preservazione d’organo, mantenendo al tempo stesso la radicalità oncologica.


Tre. Il ruolo dello stile di vita e dei fattori ambientali – sovrappeso, sedentarietà, dieta povera di fibre e ricca di carni processate, fumo e alcol sono fattori riconosciuti. Non sono “colpe” del paziente, ma elementi su cui possiamo intervenire per ridurre il rischio e, una volta effettuata la diagnosi, migliorare gli esiti complessivi.


In sintesi: l’incidenza resta importante, ma sta cambiando il “volto” del cancro del retto. Lo vediamo prima, lo vediamo più spesso in età lavorativa, e disponiamo di strumenti diagnostici e terapeutici che ci permettono, in molti casi, di trasformare una diagnosi che un tempo significava mutilazione in un percorso strutturato, comprensibile e, quando possibile, conservativo. Il mio lavoro quotidiano è proprio questo: coniugare i numeri dell’epidemiologia con le scelte concrete per quella persona che ho davanti.»


2. In un distretto anatomico tanto cruciale, dove funzione e identità si sfiorano, quali principi guidano le sue scelte terapeutiche affinché radicalità oncologica e rispetto della persona convivano in equilibrio?


«Il retto non è solo un tratto dell’intestino: è continenza, controllo, sessualità, immagine di sé. Per questo, nel mio lavoro, ogni decisione terapeutica si gioca su un equilibrio molto preciso fra radicalità oncologica e preservazione della funzione e della dignità della persona.


In pratica seguo tre principi molto chiari:


Primo. La sicurezza oncologica viene prima di tutto


Il primo passo è sempre comprendere “quanto è aggressivo” il tumore: stadio alla risonanza, ecografia endorettale, esame istologico, presenza di fattori di rischio come invasione vascolare o alto grado di malignità.


Se i dati ci dicono che è necessario un intervento radicale con asportazione del retto (TME), lo eseguiamo con approcci mini-invasivi laparoscopici o robotici, cercando quando possibile di preservare lo sfintere e quindi evitare una stomia definitiva. Su questo non accetto compromessi: la guarigione non si baratta.


Secondo. Quando le caratteristiche del tumore lo consentono, puntiamo alla conservazione d’organo


Nei tumori iniziali o dopo una buona risposta a radio-chemioterapia, si apre lo spazio per strategie più raffinate:


  • Escissione locale transanale (TEM/TEO/TAMIS) per lesioni selezionate, che consente di rimuovere il tumore attraverso il canale anale, senza necessità di rimuovere l’intero retto.
  • Percorsi di “watch and wait” in casi molto selezionati con risposta clinica completa, con un follow-up strettissimo.
  • Qui entrano in gioco le competenze più specifiche del nostro gruppo di ricerca: definire chi può davvero beneficiare di un trattamento conservativo senza aumentare il rischio di recidiva.


Terzo. La persona al centro: funzione, progetti di vita e preferenze contano quanto la TAC


Nella valutazione non considero mai solo il tumore, ma anche:


  • età, fragilità, altre malattie;
  • funzione intestinale, urinaria e sessuale preesistente;
  • lavoro, ruolo familiare, progetti (una donna giovane che desidera una gravidanza, un paziente che teme la stomia più della chirurgia stessa…).


Tutte queste informazioni vengono discusse in riunione multidisciplinare dedicata al tumore del retto – chirurgo, oncologo, radioterapista, radiologo, anatomo-patologo – e poi rielaborate insieme al paziente in un colloquio approfondito. Io spiego con parole semplici:


  • quali sono le opzioni realistiche;
  • qual è il rischio oncologico di ciascuna;
  • che impatto avranno su continenza, sessualità, qualità di vita.


Alla fine la scelta non è mai “del chirurgo contro il paziente”, ma una decisione condivisa, informata, in cui io porto l’evidenza scientifica e l’esperienza, e il paziente porta la sua vita, i suoi valori, le sue paure.


Solo così radicalità oncologica e rispetto della persona smettono di essere poli opposti e diventano le due facce della stessa cura.»


3. Come valuta oggi l’impatto dell’endoscopia avanzata nella scoperta delle lesioni rettali più insidiose, e quale spazio mantiene l’intuizione clinica dell’operatore rispetto alla tecnologia?


«L’endoscopia avanzata ha davvero cambiato il modo in cui vediamo – e capiamo – le lesioni del retto.


Oggi non facciamo più “solo” una colonscopia: lavoriamo con videocolonscopi ad alta definizione, ingrandimento, filtri digitali che esaltano il pattern vascolare e superficiale, cromoendoscopia, ecografia endorettale e risonanza magnetica dedicata al retto. Questo ci permette di riconoscere polipi piatti, lesioni laterali estese e tumori molto iniziali che in passato sarebbero passati inosservati o classificati come “banali”.


L’impatto clinico è enorme:


  • riusciamo a stratificare meglio il rischio (lesione benigna, neoplasia iniziale, sospetto di invasione profonda);
  • possiamo decidere in modo più accurato se una lesione è candidabile a resezione locale (endoscopica o transanale) oppure richiede un intervento radicale;
  • riduciamo il rischio di trattamenti inutilmente aggressivi o, al contrario, di sottostimare una malattia pericolosa.


Detto questo, la tecnologia non sostituisce il medico. Un’endoscopia non è un “video ad alta definizione”, è un atto clinico complesso.


Serve l’occhio allenato a cogliere dettagli minimi – una lieve depressione, un cambiamento del disegno dei vasi, una rigidità della parete – e la capacità di integrarli con la storia del paziente: età, familiarità, malattie croniche intestinali, sintomi, esami precedenti.


Mi piace riassumerlo così: la macchina vede i pixel, il medico vede la malattia e la persona.


Il futuro sarà l’integrazione tra sistemi di supporto basati su intelligenza artificiale – che segnalano polipi, suggeriscono un pattern, aiutano a non “perdere” lesioni – e il giudizio clinico dell’operatore, che resta il responsabile della diagnosi e delle decisioni terapeutiche.


Non è una gara tra uomo e tecnologia: è una collaborazione, in cui la tecnologia amplifica la nostra capacità di fare bene il mestiere, non la sostituisce.»


4. Nel suo approccio, quanto è centrale il riconoscimento precoce delle lesioni a rischio, e quali sono i segni più sottili che, a suo giudizio, solo un occhio esperto può cogliere?


«Il riconoscimento precoce delle lesioni a rischio è probabilmente l’elemento più decisivo per modificare la storia naturale del cancro del retto. Prima intercettiamo una lesione, più è alta la probabilità di proporre trattamenti conservativi – endoscopici o transanali – mantenendo la stessa sicurezza oncologica di una chirurgia maggiore.


Dal punto di vista endoscopico, ci sono segni molto sottili che non “saltano all’occhio” se non si osserva il retto tutti i giorni. Penso, per esempio, a:


  • polipi piatti o leggermente depressi, che non sporgono come le classiche “escrescenze” e possono sembrare solo un lieve rilievo della mucosa;
  • lesioni laterali estese che si “sdraiano” lungo la parete, con un disegno vascolare alterato o una zona più pallida o più arrossata rispetto ai tessuti circostanti;
  • una rigidità quasi impercettibile del retto all’insufflazione, o una minima irregolarità del profilo, che possono suggerire un’infiltrazione più profonda;
  • aree che non si sollevano bene all’iniezione sottomucosa o mostrano una superficie più opaca, granulare, facilmente sanguinante.


Accanto ai segni endoscopici ci sono poi i segnali clinici “minori” che i pazienti spesso liquidano come emorroidi o “colon irritabile”:


una piccola traccia di sangue sulla carta, un cambiamento nuovo e persistente nel ritmo intestinale, la sensazione di evacuazione incompleta, un tenesmo fastidioso, un’anemia sideropenica “inspiegata”. Se questi sintomi vengono letti con attenzione, possono condurre a una diagnosi in fase ancora curabile.


Per questo insisto sempre a farsi controllare nel posto giusto, dove l’endoscopia del colon-retto è una vera area di specializzazione e non solo una prestazione tecnica.


In sintesi: riconoscere presto le lesioni a rischio significa salvare non solo la vita, ma spesso anche il retto e la qualità della vita futura.»


5. Quali tecniche endoscopiche ritiene stiano ridefinendo con maggiore forza il confine tra trattamento conservativo e chirurgia, e quali considera davvero destinate a plasmare il futuro?


«Negli ultimi anni il confine tra “endoscopia” e “chirurgia” non si è soltanto spostato: si è fatto poroso.


Oggi esiste una vera e propria zona di frontiera, dove tecniche endoscopiche avanzate consentono di trattare lesioni che un tempo richiedevano automaticamente un intervento più complesso.


Le tecniche che, a mio giudizio, stanno cambiando di più la pratica clinica sono:


  • La dissezione endoscopica sottomucosa (ESD)

Permette di rimuovere in blocco lesioni complesse, piatte o estese, con margini di resezione precisi. È particolarmente utile per lesioni a rischio di carcinoma iniziale, perché offre al patologo un pezzo unico su cui valutare la profondità di invasione, i margini e i fattori di rischio. È una tecnica esigente, ma quando è ben indicata può evitare un intervento chirurgico più complesso.


  • La resezione endoscopica complessa e i sistemi di resezione a tutto spessore

Tecnologie come i dispositivi di full-thickness resection permettono, in casi selezionati, di rimuovere lesioni difficili o recidive su cicatrice, portando via l’intera parete in quel punto. Anche qui l’idea è la stessa: ottenere una resezione oncologicamente affidabile senza dover ricorrere subito a una resezione del segmento intestinale.


  • La chirurgia transanale endoscopica (TEM/TEO/TAMIS)

È probabilmente la tecnica che più di tutte ha ridefinito il confine tra trattamento conservativo e chirurgia del retto. Attraverso il canale anale, con strumenti dedicati e visione ingrandita, possiamo eseguire escissioni locali a tutto spessore di tumori iniziali o di residui/recidive, preservando il retto e spesso anche lo sfintere.

È un ambito a cui ho dedicato molta parte della mia attività clinica e di ricerca, contribuendo a definire quali tumori possono essere trattati in sicurezza in questo modo e quando invece è più prudente proporre una resezione maggiore.


Queste metodiche non sono “trucchi per fare meno chirurgia”, ma strumenti che, se usati con criteri rigorosi, consentono di offrire a molti pazienti la stessa sicurezza oncologica con un impatto funzionale molto minore: meno dolore, degenza più breve, maggiore probabilità di conservare il retto e la continenza.


Guardando al futuro, vedo tre linee evolutive molto chiare:


  • Integrazione con la robotica endoluminale e transanale

Piattaforme sempre più stabili e precise, con strumenti articolati, ci permetteranno di lavorare nel retto e nel colon dall’interno con una finezza oggi         impensabile.


  • Miniaturizzazione e navigazione guidata dalle immagini

Strumenti più piccoli, sistemi di imaging avanzato e mappe digitali del tratto intestinale aiuteranno a “personalizzare” il gesto chirurgico sulla singola lesione e sul singolo paziente.


  • Supporto dell’intelligenza artificiale

Algoritmi in grado di riconoscere pattern sospetti, stimare il rischio di invasione profonda e suggerire il tipo di resezione più appropriato diventeranno sempre più parte integrante del lavoro in sala endoscopica e in sala operatoria.


In sintesi, il futuro del trattamento del cancro del retto va in una direzione molto precisa: curare in modo radicale, ma sempre più naturalmente, riducendo al minimo l’impatto sull’anatomia e sulla qualità di vita. Non è più una visione futuristica: in gran parte, è già ciò che stiamo costruendo ogni giorno nei nostri programmi di organ preservation.»


6. La biologia tumorale del retto si sta rivelando più variegata del previsto: quali aspetti molecolari o istopatologici ritiene stiano emergendo come veri determinanti del destino clinico?


«È uno dei cambiamenti più affascinanti degli ultimi anni: abbiamo capito che non esiste “il” cancro del retto, ma molti tipi di cancro del retto, con comportamenti biologici profondamente diversi. Due tumori della stessa dimensione e dello stesso stadio T possono avere destini opposti: uno rimanere localizzato, l’altro dare metastasi linfonodali in tempi brevi.


Oggi, accanto alla stadiazione “classica”, ci sono alcuni elementi istopatologici e biologici che considero davvero determinanti:


  • Grado di differenziazione (grading)

Un adenocarcinoma ben differenziato non si comporta come uno scarsamente differenziato: quest’ultimo ha, in media, una maggiore propensione a diffondersi e recidivare. È un primo indicatore di “aggressività”.


  • Invasione linfovascolare e perineurale

La presenza di cellule tumorali nei vasi linfatici o sanguigni, o lungo i nervi, è un segnale forte che il tumore ha la “tendenza” a uscire dal suo compartimento di origine. Quando questi fattori sono presenti, siamo molto più cauti nel proporre strategie conservatrici.


  • Tumor budding

È uno degli aspetti su cui il nostro gruppo ha lavorato di più. Si tratta di piccole isole di poche cellule tumorali che “gemmano” dal fronte di invasione. Un alto grado di budding è associato a un rischio aumentato di metastasi linfonodali, anche in tumori apparentemente iniziali (pT1).

In pratica: un piccolo tumore con alto budding può essere più pericoloso di uno più grande ma biologicamente “calmo”.


  • Microambiente e risposta immunitaria

La quantità e la qualità dei linfociti presenti intorno al tumore (la cosiddetta risposta immunitaria) ci forniscono indizi importanti: alcuni tumori sono circondati da una risposta immunitaria vivace, altri crescono in un contesto quasi “indifferente”. Questo, in futuro, guiderà sempre più l’uso di terapie mirate e di immunoterapie.


  • Profili molecolari e instabilità dei microsatelliti (MSI)

In casi selezionati analizziamo anche lo stato dei geni del mismatch repair (MMR) e la presenza di instabilità dei microsatelliti. I tumori MSI-high, ad esempio, presentano caratteristiche biologiche e di risposta alle terapie diverse, con implicazioni sia per il trattamento del paziente sia per la valutazione del rischio familiare.


Mettendo insieme questi elementi – profondità di invasione, grading, invasione vascolare, budding, profili biologici – non vediamo più solo “quanto è grande il tumore”, ma che tipo di tumore abbiamo davanti.


Questo è cruciale per le decisioni:


  • ci aiuta a capire chi può essere trattato in modo conservativo, con escissione locale e follow-up stretto;
  • chi, al contrario, ha bisogno di una chirurgia più radicale e di terapie adiuvanti;
  • chi è potenzialmente candidato a protocolli innovativi di preservazione d’organo, senza aumentare il rischio di recidiva.


In altre parole, la direzione è chiara: non è più la tecnica chirurgica da sola a guidare la strategia, ma la biologia del tumore. La chirurgia, l’endoscopia, la radioterapia e la chemioterapia diventano strumenti che usiamo in modo diverso a seconda della “firma biologica” di ciascun cancro del retto.»


7. Quando ci si trova di fronte a forme di confine — né pienamente iniziali né francamente avanzate — quali criteri considera decisivi per scegliere il percorso terapeutico più appropriato?


«Le forme di confine sono, paradossalmente, le più difficili e le più interessanti: non sono piccoli tumori “ideali” per una terapia conservativa, ma nemmeno malattie così avanzate da imporre senza dubbi una chirurgia demolitiva.


È proprio lì che si vede il peso dell’esperienza e del lavoro di un centro dedicato al retto.


Quando mi trovo davanti a questi casi, ragiono per strati, mettendo insieme diversi criteri:


  • Uno- La stadiazione radiologica “fine”

Non mi basta sapere che è un T3: voglio capire quanto e come è T3.

La risonanza dedicata mi indica la distanza dal mesoretto, il rapporto con lo sfintere e l’eventuale interessamento dell’apparato sfinteriale o degli organi vicini.

L’ecografia endorettale, quando possibile, aiuta a distinguere meglio le forme T1–T2–early T3.

Spesso la differenza tra un T2 “puro” e un T3 limitato può aprire o chiudere la porta a strategie più conservative.


  • Due- Istologia e biologia del tumore

Oltre allo stadio, guardo sempre:

grading (quanto il tumore è differenziato);

invasione linfovascolare e perineurale;

tumour budding;

eventuali caratteristiche molecolari note.

Un tumore piccolo ma biologicamente aggressivo mi rende molto prudente nel proporre trattamenti limitati. Al contrario, una lesione un po’ più estesa, ma con profilo favorevole, può essere candidata a percorsi di preservazione d’organo, se supportata da una buona risposta alla terapia neoadiuvante.


  • Tre- Risposta a radio-chemioterapia (quando indicata)

Nelle forme localmente avanzate ma potenzialmente trattabili con organ preservation, la qualità della risposta alla terapia neoadiuvante è un criterio chiave:

se la massa si riduce drasticamente, la lesione residua è minima e i parametri di risonanza migliorano, posso considerare escissione locale transanale o, in casi molto selezionati, protocolli di watch and wait;

se la risposta è parziale o disomogenea, è più prudente orientarsi verso una resezione radicale.


  • Quattro- Condizioni generali e funzione sfinteriale del paziente

Età, fragilità, comorbidità, funzione sfinteriale e anale di partenza, eventuali disturbi urinari o sessuali preesistenti pesano moltissimo:

in un paziente molto fragile, una strategia meno aggressiva ma ben sorvegliata può essere preferibile;

in un paziente giovane, con buona funzione sfinteriale, mi batto il più possibile per preservare sia la radicalità oncologica sia la qualità di vita a lungo termine.


  • Cinque- Valori, paure e priorità del paziente

C’è chi dice: “Professore, faccia quello che mi dà più chances sul tumore, il resto viene dopo”, e chi mi dice: “La prospettiva di una stomia definitiva, per me, è un confine enorme”.

Io porto sul tavolo numeri, percentuali, linee guida, studi; il paziente porta la sua vita reale. La scelta nasce dall’incontro di queste due dimensioni.


Tutto questo non lo decido da solo. Ogni caso di confine viene discusso nella riunione multidisciplinare del tumore del retto che ho l’onore di coordinare: chirurghi, oncologi, radioterapisti, radiologi, anatomo-patologi. Da quel confronto escono spesso due o tre scenari possibili, con pro e contro ben definiti.


La fase finale è il colloquio con il paziente: spiego le alternative, i rischi di recidiva, i possibili esiti funzionali, l’impegno richiesto dal follow-up nei percorsi di organ preservation.


Non esistono scorciatoie né ricette valide per tutti: esiste la scelta migliore per quella persona, in quel momento della sua storia, costruita con rigore scientifico e grande rispetto umano.»


8. Il percorso post-trattamento può essere complesso e disorientante: quali princìpi ritiene imprescindibili affinché il follow-up sia realmente efficace e non solo protocollare?


«Ha perfettamente ragione: il dopo-trattamento è spesso la fase più difficile. Finché ci sono interventi, chemio, radio, il paziente “sente” che si sta facendo qualcosa; quando iniziano i controlli, può nascere la sensazione di essere lasciato un po’ solo.


Per me un follow-up davvero efficace si fonda su alcuni princìpi molto chiari:


  • Strutturato e basato sulle evidenze, non improvvisato

Il calendario dei controlli non è arbitrario: deriva da linee guida internazionali e dai dati su quando è più probabile che si manifesti una recidiva. Per questo i primi anni i controlli sono più ravvicinati (visite, esami del sangue, colonscopia, imaging mirato) e poi gradualmente si diradano. Ogni esame deve avere uno scopo preciso, non si “fa tutto per sicurezza” né si riduce al minimo per comodità.


  • Personalizzato sul profilo di rischio del singolo paziente

Un paziente operato per un tumore iniziale, senza fattori di rischio aggiuntivi, non ha bisogno dello stesso follow-up di chi ha avuto una malattia localmente avanzata o trattata con terapie combinate.

Nella pratica moduliamo intensità e tipo di controlli in base a: stadio, istologia, eventuale chemio/radioterapia, comorbidità, età, percorso di organ preservation. Così evitiamo sia il sottotrattamento sia l’iper-medicalizzazione.


  • Attenzione non solo al “se torna il tumore”, ma a come vive il paziente

Un buon follow-up non riguarda solo TAC e marker, ma anche:

continenza, urgenza, numero di evacuazioni;

eventuali disturbi sessuali o urinari;

adattamento alla stomia, quando presente;

stanchezza, ripresa lavorativa, vita sociale.

Se necessario coinvolgiamo fisioterapisti del pavimento pelvico, psicologi, stomaterapisti: la qualità di vita non è un optional.


  • Comunicazione chiara e canali aperti

Il paziente deve sapere chi lo segue, quando verrà rivisto, quali segnali non ignorare (nuovo sanguinamento, dolore, cambiamenti dell’alvo) e come contattarci in caso di dubbi. La paura della recidiva è reale: va ascoltata, spiegata, incanalata, non banalizzata con un “stia tranquillo”.


In sintesi, il follow-up non è una coda burocratica della cura, ma una parte integrante del trattamento. Il nostro obiettivo è che il paziente non debba orientarsi da solo nel sistema, ma si senta accompagnato nel tempo da un team che conosce la sua storia e si prende cura di lui anche dopo l’ultima terapia.»


9. Professore, da osservatore privilegiato di questa malattia, quale pensa sia oggi la sfida più profonda — scientifica o umana — nel trasformare il cancro del retto in una condizione sempre più controllabile e meno temuta?


«Se dovessi sintetizzarla in una frase, direi così: la sfida è essere sempre più precisi sul tumore, senza diventare mai indifferenti alla persona.


Sul piano scientifico, la grande questione è imparare a distinguere con estrema finezza:

chi ha davvero bisogno di trattamenti molto aggressivi,

e chi, invece, può essere curato in modo conservativo, magari preservando il retto e la funzione.


Questo richiede di integrare:

stadiazione radiologica avanzata,

dettagli istopatologici e biologici (grading, budding, invasione vascolare, profili molecolari),

risposta alle terapie neoadiuvanti,

e, sempre di più, strumenti di intelligenza artificiale e modelli predittivi.


Evitare una mutilazione inutile, oggi, è importante quanto evitare di sottotrattare una malattia potenzialmente letale. È un equilibrio sottile: non basta “curare il cancro”, bisogna farlo nel modo giusto per quel paziente.


Sul piano umano, la sfida è forse ancora più profonda.


Il cancro del retto tocca l’intimità, la sessualità, la continenza, la paura della stomia. Non riguarda solo la sopravvivenza, ma anche il modo in cui una persona vive, lavora, ama e si guarda allo specchio.


Il mio compito, insieme al mio team, è:

trasformare la paura in informazione comprensibile,

dare parole semplici a scelte terapeutiche complesse,

non minimizzare mai temi come la funzione sfinteriale, la vita sessuale, la gestione di una stomia,

costruire decisioni condivise, in cui il paziente non subisce una scelta ma ne è protagonista.


Quando scienza e umanità lavorano davvero insieme – la biologia che guida la strategia, la relazione che guida il modo di applicarla – il cancro del retto diventa sempre più una malattia controllabile, una sfida da affrontare con strumenti moderni e una squadra competente, e sempre meno un “destino” da temere in silenzio.»


10. Professore, per concludere: lei sa che noi di Eccellenza Medica abbiamo sempre uno sguardo rivolto al futuro. Le chiedo quindi quali sviluppi ritiene possano realmente rivoluzionare la diagnosi e la gestione del cancro del retto nei prossimi anni, e quali opportunità appaiono più promettenti alla luce della sua esperienza?


«Quando parliamo di futuro, in realtà parliamo già molto del presente: molte delle innovazioni che cambieranno la storia del cancro del retto sono già nei nostri ambulatori, nelle nostre sale endoscopiche e nei progetti di ricerca a cui lavoro con il MITIC-LAB e con i consorzi europei di cui faccio parte.


Se dovessi indicare gli assi principali della rivoluzione in corso, ne vedo almeno tre:


  • Endoscopia e chirurgia “assistite” dall’intelligenza artificiale

Stiamo passando da esami che dipendono solo dall’occhio umano a sistemi in cui l’IA:

segnala in tempo reale polipi e lesioni millimetriche che potrebbero sfuggire,

aiuta a caratterizzare il tipo di lesione (più o meno sospetta),

supporta il chirurgo nel riconoscere i piani di dissezione e le strutture delicate durante un intervento.

Non si tratta di sostituire il medico, ma di potenziarne le capacità, riducendo il margine di errore e rendendo più omogenei i risultati.


  • Percorsi di cura sempre più organo-preservanti

La domanda chiave diventerà sempre più: “Possiamo guarire questo tumore senza togliere il retto?”

La risposta, in molti casi, passa da:

protocolli raffinati di radio-chemioterapia personalizzata,

chirurgia transanale endoscopica avanzata (TEM/TEO/TAMIS) e, domani, piattaforme robotiche endoluminali,

strategie di watch and wait rigorosamente selezionate e controllate.

L’obiettivo è chiaro: mantenere la stessa sicurezza oncologica, ma con un impatto minore su continenza, sessualità e qualità di vita.


  • Medicina realmente personalizzata sulla biologia del tumore

Andremo sempre più oltre la sola “misura” del tumore per guardare:

profili molecolari e genetici,

marcatori di risposta alle terapie,

interazione fra tumore e sistema immunitario.

Questo permetterà di modulare l’intensità dei trattamenti (più forti quando serve, più leggeri quando è possibile), scegliere chi può beneficiare di immunoterapia o farmaci mirati, e chi è un buon candidato a strategie conservative in piena sicurezza.


Accanto a questi assi, stanno arrivando anche strumenti come i gemelli digitali (digital twins) del paziente (modelli virtuali per simulare interventi e risposte alle terapie) e sistemi di monitoraggio a distanza di sintomi e qualità di vita, che ci permetteranno un follow-up più vicino e intelligente.


La collaborazione con realtà come Eccellenza Medica va proprio in questa direzione: dare al paziente accesso a centri in cui innovazione tecnologica, ricerca clinica e attenzione alla persona non sono slogan, ma pratica quotidiana.


L’obiettivo non è solo offrire “un buon intervento”, ma costruire un percorso completo, in cui diagnosi avanzata, terapie su misura e cura della qualità di vita procedono insieme fin dal primo colloquio.»


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